Saluto al Pic Lenin: il racconto della spedizione di Carlalberto “Cala” Cimenti
La salita non è stata semplice, abbiamo dovuto sopportare un forte vento che ha costretto Dino, Joseph e Flavio a lasciare a terra, per strada, lo zaino con gli sci, ed il freddo intenso che alla partenza era di -35°. Nonostante questo, il 25 luglio verso mezzogiorno Maurizio, Dino, Joseph e il sottoscritto siamo in cima al pic Lenin, mentre Flavio arriverà un’ora e mezza più tardi. Solo Natalia, purtroppo, è costretta a tornare indietro a trecento metri dalla cima per dei principi di congelamento alle dita dei piedi. Festeggiamo, sorridiamo, ci diamo grandi pacche sulle spalle per la riuscita di un’avventura che rappresentava la prima esperienza cosi’ ad alta quota, oltre i 7000 mt, per tutti, tranne che per me, scattiamo mille foto e poi è ora di tornare indietro: Dino e Joseph per la via di salita, mentre io e Maurizio calziamo gli sci e andiamo alla ricerca del colletto che rappresenta l’entrata nella famosa e immensa parete nord del pic Lenin.
Per arrivare al colletto bisogna sciare 150 metri di dislivello abbastanza ripidi, e la neve quel giorno non era delle piu’ facili: dura, lavorata dal vento e con numerosi sastrugi su una pendenza accentuata. Il colletto si vede giù in fondo sulla sinistra, col fiatone, le gambe che bruciano e molta attenzione a dove e come mettiamo gli sci, lo raggiungiamo. Ora ci consultiamo brevemente dando un’occhiata in su dove entrare e chi debba farlo per primo:
Io: “Vuoi andare tu?” Maurizio: “No No vai pure tu che sei piu’ vecchio”
Soliti giovinastri irriverenti e fifoni. La parete è veramente enorme, sembra infinita vista da lì sopra, ma il problema che prende tutta la mia attenzione in questo momento sono i primi venti metri, l’entrata, ripida, intorno ai 50 gradi e di neve ghiacciata di un preoccupante colore azzurro-blu. Come se non bastasse la sua superficie non è regolare, liscia, ma tutta grutuluta. Ok non ci penso due volte, con la coda dell’occhio vedo tutto a sinistra, proprio al limite del couloir, proprio vicino alla parete rocciosa, una striscia di neve più bianca. Mi butto e con un delicato traverso che a me sembra che duri minuti, ma in realtà sarà durato pochi secondi, la raggiungo, inizio a fare le curve saltate, la neve non è bella, crostosa e dura, ma ci siamo, ho iniziato la discesa della parete nord! Dietro di me Maurizio mi segue diligentemente, senza perdere neanche una curva. La fatica è grande, le gambe fanno male, il fiato cortissimo, riusciamo a fare poche curve in continuità e poi siamo costretti a fermarci. Mi ricordo che dopo una ventina di curve distolgo lo sguardo dalla sciata pura, lo rivolgo verso il basso, poi verso l’alto e penso porca miseria ma questo couloir è lunghissimo, non sarò neanche ad un terzo. Ed era il couloir iniziale di entrata che dal campo base avanzato si vede lassù in alto alto e sembra solo un colletto con accenno di canale. Sotto di noi ancora 2500 metri di discesa. Che discesona, una discesa infinita dove la gioia della prestazione si mischia alla sofferenza dei muscoli e al desiderio che finisca il prima possibile. Una bella emozione per me ed un gran piacere di avere accompagnato Maurizio nella sua prima esperienza sciistica a queste quote, un giovane che promette bene e di cui sentiremo ancora parlare se solo imparasse l’inglese. Scendiamo di filato fino al campo base avanzato dove possiamo stringerci la mano e girarci verso la parete con animo rinnovato, con sentimenti diversi che ci pervadono: di felicità e serenità per un lavoro ben fatto. Well done mio giovane padawan.
Il giorno dopo aspettiamo gli altri che si sono fermati al campo 3 a 6100 metri a dormire ed arrivano nel primo pomeriggio per pranzo, poi festeggiamo. La cima è stata raggiunta con una strategia di acclimatamento e logistica esemplare, senza farci sfuggire la prima occasione utile, dopo soli undici giorni dal nostro arrivo al campo base. Ora rimane ancora una settimana di tempo prima del volo di ritorno a casa che parte da Osh, il gruppo inizia a discutere su varie opzioni, decidono che ne hanno abbastanza di alta quota e di andare a visitare la capitale del Kyrgikistan Bishkek e Alma Ata, in Kazakistan.
Io e Natalia invece decidiamo di restare: Natalia per tentare nuovamente di arrivare in cima, io per cercare di realizzare un’idea, un sogno. Sono qui sul pic Lenin per la seconda volta, a quattro anni da quando il progetto Snowleopard Ski Project è iniziato, questa è stata la prima cima del progetto che ho scalato, allora l’ho un po’ trascurata, l’importante era arrivare in cima nel più breve tempo possibile e così era stato, l’avevo scalata in sei giorni senza acclimatamento ed ero sceso con gli sci dalla parete nord ma calzandoli dal colletto all’altezza della cresta denominata knife, coltello, non direttamente dalla cima; questa volta ero riuscito a scendere la nord con l’amico Maurizio dalla cima e con grande soddisfazione, ma sentivo che mancava ancora qualcosa, un ultimo saluto alla montagna e a tutta questa avventura da “Leopardo delle nevi”. Ora sentivo che dovevo provare a salire direttamente la parete nord e ridiscenderla con gli sci in giornata, senza campi intermedi, senza bivacchi, leggero, solo. Volevo fare quest’ultimo omaggio alla montagna e a tutto il progetto e speravo che la montagna me lo concedesse.
Dopo due volte di sveglia puntata alle 2:00 del mattino e due volte che il tentativo è stato rimandato per il cattivo tempo, arriva la notte tra il 31 luglio e il primo agosto, l’ultima occasione, l’ultimo giorno utile:
La notte è fredda, io mi rigiro continuamente nel sacco a pelo troppo leggero cercando di scaldarmi. Al suo interno le scarpette dei miei scarponi da sci che tento invano di scaldare. Ma che ore sono? Aziono la luce dell’orologio e leggo 3:30. Porca miseria! Avevo puntato la sveglia alle 2:55 e non l’ho sentita, schizzo fuori dal sacco a pelo ed inizio a prepararmi. Esco dalla tenda, i piedi sono già freddi, e vado verso la tenda mensa a recuperare il telefono che avevo lasciato la sera prima a caricare. Lì vi trovo l’amico Zoli che sta facendo colazione con i suoi clienti lituani in procinto di partire per il C2. Bevo un the, scambio due battute sulla riuscita dell’impresa e parto. Alla cieca sulle prime propaggini del ghiacciaio verso la parete nord. Solo, coi miei pensieri, mi godo la passeggiata frizzantina sulle morene sotto un cielo stellato fino al ghiacciaio vero e proprio. In lontananza qualche luce di persone partite prima di me e dirette al campo 2. Le raggiungo quando arrivo sul ghiacciaio e loro si devono legare, io mettere gli sci. Ci scambiamo un saluto, la guida mi chiede se vado a fare la via Arkin e al mio assenso titubante, mi fa gli auguri: non mi piace dichiarare in anticipo le mie intenzioni, soprattutto se si tratta di un progetto ambizioso con poche possibilità di riuscita, rischio di passare per uno che parla solo e non fa i fatti. Non sono neanche uno che, però, che tiene tutto nascosto e non dice mai niente, se qualcuno mi chiede che intenzioni ho, gli rispondo sinceramente.
Ore 4:40, parte il cronometro, iniza l’avventura. Le luci delle frontali si allontanano dietro di me, percorro il primo tratto , i primi 350 metri sulla via che porta al C2. Ha nevicato i giorni precedenti, devo battere traccia, ma fin qui tutto bene, conosco ogni metro: ora tolgo gli sci e affronto un tratto ripido tra i seracchi senza calzare i ramponi, poi rimetto gli sci. Quando la traccia piega a destra verso il C2 la lascio per procedere verso l’alto, leggermente a sinistra. Inzia a rischiarare, mi giro verso il basso e le luci frontali si agitano ancora sempre più lontane prima di arrendersi al nuovo giorno. La neve si fa più profonda ma la pendenza non è eccessiva e procedo bene con le pelli di foca. Tengo una media di 500 metri di dislivello all’ora. Salirò bene fino a poco oltre la metà quando la pendenza aumenta e diventa più difficile utilizzare le pelli. Sto bene, finalmente sto facendo quello che sono più capace a fare, mettere un piede davanti all’altro, col fiatone, il sudore, la barba ghiacciata e capace di apprezzare lo spettacolo dell’alba che incendia la cima della montagna. Solo i piedi sono freddi, le dita vicine al punto di congelamento, le muovo continuamente. Arrivano le 8:00 e accendo la radio per il collegamento con il responsabile del campo base avanzato, Vladimir. Un bel momento che rompe la solitudine dell’ascesa.
Dopo una serie di appelli a tutti i gruppi di alpinisti impegnati sulla montagna arriva anche il mio turno: “Cala where are you?”
“I’m Cala, I’m at 6500 mt, everithing ok, I’m going up”
“Ok Cala hear you at 12:00”
L’appuntamento radio è ogni quattro ore a partire dalle 8:00 del mattino fino alle 20:00 di sera.
I primi problemi arrivano quando la pendenza aumenta: mi tolgo gli sci, li metto in spalla, calzo i ramponi e inizio a procedere sulla massima pendenza. Sprofondo fino alla vita, fatico tantissimo e non vado su. Ricerco le rigole di neve più dura ma ne trovo poche. Così, dopo forse un’ora persa in quel modo, decido di rimettere gli sci ai piedi e di procedere in quel modo, nonostante la pendenza. Molto meglio: faccio lunghi traversi su grossi cumuli di neve ma fatico molto meno e riesco a procedere decentemente. La parete però è immensa, non finisce mai, alla neve profonda si alternano seracchi e placche ghiacciate, l’utilizzo degli sci si alterna a quello dei ramponi. Ad un certo punto sono coi ramponi nella neve profonda con la visione di un seracco ghiacciato trenta metri davanti a me che si estende obliquo a destra verso l’alto formando un bel corridoio che, penso, mi permetterà di guadagnare un bel po di metri, così mi impegno tantissimo per raggiungerlo tracciando letteralmente un solco per quei trenta metri di neve accumulata alla sua base e finalmente riesco a raggiungerlo ed erigermici sopra. Tutto contento inizio a camminare, ma dopo quattro passi mi manca il terreno sotto il piede sinistro, cado giù, cerco di aggrapparmi con le mani da qualche parte ma, senza piccozza rigorosamente attaccata dietro allo zaino, non trovo prese e cado sbilanciato a sinistra. Per fortuna mi fermo subito con la spalla appoggiata ad un ponte di neve. Sfuma il miraggio del comodo corridoio di ghiaccio che porta verso l’alto con pendenza confortante, così mi faccio forza, oltrepasso con cautela il crepaccio e ricomincio a soffrire in quell’estenuante gioco di traversi adrenalinici e sfacchinate nella neve profonda.
Continuo a guardare l’altimetro che sale in maniera incredibilmente lenta. Mi scoraggio sempre di più. A 6750 metri ho una grande crisi, sono molto stanco, sono all’entrata del couloir finale ma non riesco più a procedere verso l’alto, guardo ancora spesso il mio altimetro che segna sempre meno di quello che mi aspetto… . Tutto è diventato difficile, faticoso, all’improvviso perdo le speranze, oltretutto sono venti minuti che osservo nuvole minacciose che stanno salendo dalla valle. Penso pure che sono un pirla perchè non ho preso il GPS. Improvvisamente prendo i bastoncini e li getto per terra, dico basta! Torno indietro.
Prendo la radio e chiamo Vladimir: “Vladimir there are some clouds coming up, is it a problem? Should I turn back?
“Cala, only little clouds, no problem, go on, continue!”
Il tono di Vladimir mi ha rincuorato, mi ha infuso nuova energia: ho sentito che stava tifando per me, che, a dispetto dei giorni precedenti quando per ben due volte la mattina avevo restituito la radio presa la sera prima per partire nella notte, non pensava più che non avrei concluso niente.
Così spengo la radio, riprendo i bastoncini e ricomincio a dargliene. Certo, quando rivolgo lo sguardo verso l’alto e realizzo quanto ancora mi manchi mi prende il terrore, ma non importa, è ora di tirare fuori le palle. Senza accorgemene parlo ad alta voce: “Allora, sei un uomo o cosa? Ora vediamo se hai le palle o se sei solo una femminuccia!”
Così si ricomincia a salire tra placche e neve profonda, si è alzato anche il vento, freddo, in realtà c’è già da oltre mezz’ora e già non sento più la punta delle dita delle mani, il freddo mi passa anche attraverso la giacca a vento. Faccio ancora un paio di inversioni, scelgo il lato con il vento alle spalle, cambio i guanti e metto il piumino, tiro un sorso dalla bottiglia riempita per metà di coca cola e per metà di acqua che è granita da quando siamo partiti, e poi via, si riparte al calduccio dei miei indumenti piumati. Finalmente arrivo agli ultimi 50 metri di ghiaccio prima di uscire sul colletto. Questa rappresenta la parte più ripida della parete, intorno ai cinquanta gradi a 6950 metri. Qui la neve fresca non si attacca più a causa della pendenza e delle temperature rigide ma scivola lasciando il pendio spoglio e ghiacciato. I miei ramponi leggeri non sono il massimo su questo terreno e prendere la picca da dietro lo zaino è troppo sforzo, quindi mi lancio in salita senza esitazione, senza pensare a cosa succederebbe se si rompesse un rampone. Su, dritto per dritto, cerco di percorrere quest’ultimo tratto senza fermarmi, tutto d’un fiato: il cuore in gola, l’aria che non basta nonostante ansimi come un mantice, i polpacci che esplodono e alla fine mi butto in ginocchio sul pianoro sovrastante il colletto. Sono uscito, sono felice, ormai so che in un modo o nell’altro arriverò in cima, ma mancano ancora 150 metri di dislivello.
Mancano pochi minuti alle 16:00, accendo la radio in attesa dell’appello: “Cala where are you?”
“I’m hundred meters from the summit” “Ok Cala let’s go”
Ormai è fatta, ancora un’ora di fatica e ci sono, bisogna ancora stare attenti a dei crepacci insidiosi nascosti sotto la neve, ad andare a cercare la neve dura per non incappare nei faticosi accumuli di neve profonda, e poi resistere sul tratto pianeggiante in cima, pieno di piccole montagnole che sembrano la cima ma non lo sono. Alla fine ecco lì il busto di Lenin in controluce, in mezzo alla foschia, tra fasci di polvere di neve alzati dal vento. Senza accorgermene aumento il passo, lo raggiungo, mi butto per terra al suo fianco e lascio che il pianto esca prepotente. Un pianto rumoroso, abbondante, violento, scosso da sussulti di tutto il mio corpo. Un pianto di liberazione, felicità, incredulità. Un pianto totale.
Si ce l’ho fatta! Guardo l’orologio e neanche a farlo apposta segna le 17:00 spaccate. Ho impiegato 12 ore e 20 minuti, accendo la radio:
“Vladimir from Cala over – – – Vladimir from Cala over”
nessuna risposta. Provo ancora un paio di volta senza risposta e poi:
“Ok, if somebody hear me I’m on the top of pic Lenin”
sorrido, penso che Vladimir è stato attaccato alla radio tutto il giorno e si è assentato un attimo proprio nel momento in cui io arrivavo in cima al pic Lenin. Lascio la radio accesa e mi metto a fare foto e a filmare, dopo qualche minuto la radio gracchia, è Vladimir che mi fa i complimenti, sinceramente contento anche lui, e poi dice subito che adesso però è ora che torni giù.
Alle 17:27 attacco gli sci e inizio a scivolare felice verso il basso. C’è tanta neve fresca, anche le parti ripide sono piacevoli su questa neve e la discesa è pura goduria. Solo dieci minuti di white out a metà parete rappresentano un piccolo problema, ma poi la nebbia si dirada e in un’ora e dieci minuti sono di nuovo al punto da dove ero partito questa mattina, tredici ore e mezzo prima.
Di Cala Cimenti